con quest’articolo, un argomento di stretta attualità e pieno d’insidie, con
l’obiettivo di fare un po’ di chiarezza, si corra il rischio di incappare in
scivoloni o creare allarmismi, perché tale è lo stato dell’arte, frutto di
scontri dialettici, e non solo, tra addetti al settore e responsabili di sanità
pubblica, tra estimatori e detrattori, tra fautori e puritani. Non parlo di
politica, né tantomeno di economia, ma di qualcosa che, nel bene o nel male, a
diverso titolo, appassiona e avvicina sempre più gran parte dei consumatori a
un mondo nuovo, ricco di mille sfaccettature, che ci riporta, se vogliamo, alle
origini e alla riscoperta e/o rivalutazione della terra e dei suoi frutti,
fatta di territori straordinari ed esempio di laboriosità e passione.
Naturalmente mi riferisco al vino e alla sua ascesa come “status symbol” del bel
paese, non tanto quanto protagonista sulle nostre tavole ma piuttosto come
simbolo del turismo enogastronomico, vero motore della vacanza Made in Italy nel
periodo di crisi. A dire il vero, chi ha avuto modo di leggere i miei articoli
sul blog o sul Ponte online, si renderà conto che parte di quello che scriverò
nelle prossime righe, è stato già affrontato in diversa misura e sviscerato in
modo da renderlo comprensivo ai più, dalla nuova normativa sul vino biologico,
sul dualismo tra vini convenzionali e vini naturali, sulle nuove frontiere
della vinificazione in assenza di solfiti ecc. Un aspetto che ancora non avevo
trattato in maniera organica, anche se non sono mancati, come dicevo, accenni
in diversi articoli, è quello che riguarda l’effetto del consumo del vino sulla
salute del consumatore, dagli effetti dell’alcool fino a quello dei vari
elementi presenti, frutto del normale processo fermentativo o da aggiunte di
coadiuvanti tecnologici. In realtà avevo già in mente di affrontare di petto
questo tema spinoso nei mesi scorsi, dopo il polverone innalzatosi dal
messaggio di Jonathan Nossiter, regista del documentario Mondovino, che sul magazine GQ definiva “tossico” un vino non naturale con tutti i
risvolti che la cosa ha portato. Tra quelli che ho seguito con maggiore
attenzione, perché ricco di spunti e argomentazioni, anche se estremamente
tecnicistico, c’è quello scritto dall’amica Anna Pancheri su Trentino Wine Blog che invito tutti ad andare a leggere: “Se il vino è veleno la
disinformazione uccide”. Tralasciando il discorso degli effetti dell’alcool sulla salute del consumatore a luoghi e con interlocutori più
consoni, cui purtroppo il vino non si sottrae come bevanda alcolica (solo
13-14% di alcool in volume), anche se ingiustamente colpevolizzato e additato
da detrattori come simbolo di tutti i mali, cerchiamo di capire quali sono i
punti critici di una produzione che, dopo la mezza “bufala” sugli effetti “miracolosi” di
polifenoli e resveratrolo, possono essere pericolosi per l’uomo. L’onda emotiva che agita il settore, riassumibile con la crescita del
fronte “bere naturale”, non si è placata, anzi, proprio in questi giorni è
stato pubblicato un articolo sull’Espresso dal titolo “Puro come vino” (che
centri qualcosa il metodo Purovino di qui ho parlato nel mio blog?), che cerca
di tracciare delle linee guida su come bere senza pericoli. La lettura dello
stesso è servita come spunto per la quadratura del cerchio su una serie di
concetti espressi negli articoli precedenti, grazie al contributo, questa
volta, di massimi esperti del settore. Andiamo per gradi e cerchiamo di
comprenderne al meglio i contenuti.
L’introduzione è di quelle che non lasciano respiro, “tutto fuorché una
spremuta di uva invecchiata e profumata”, ponendo l’accento su quelle che sono
il numero delle sostanze “chimiche” naturalmente presenti o aggiunte in
vinificazione, ben oltre 600. E via giù con un elenco di quelle più comuni, da
enzimi e lieviti, naturalmente presenti sull’uva, in generale, ma che nella
comune pratica sono aggiunti, opportunamente selezionati e purificati, in base
all’obiettivo enologico da raggiungere, aggiungo io, per finire ad alcuni coadiuvanti
tecnologici indispensabili per l’estrinsecarsi delle qualità di un vino, dalla
migliore DOC fino al vino biologico, ossia sostanze stabilizzanti
(chiarificanti proteici o minerali, gomma arabica), antiossidanti (solforosa,
tannini, glutatione), esaltatori di aromi e colore (complessi enzimatici),
antischiumogeni (lieviti selezionati anche se detto così ha fatto paura anche a
me) e così via. A dipanare la matassa ci pensa uno dei massimi esperti
nazionali in materia vitivinicola, il Prof. Mario Fregoni, già Ordinario di
Viticoltura presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, che
sentenzia: “il vino migliore
è quello naturale, ossia quello cui non si aggiunge nulla che non sia già
presente”, anche se la dicitura “vino naturale”, aggiungo, non esiste come
categoria merceologica e pertanto l’eventuale qualifica a fini commerciali è
una forma di frode. Ed ecco quindi ripresentarsi il tema dell’etichettatura che,
secondo l’autore dell’articolo sull’Espresso, rappresenta il “vero salvavita”
per il consumatore, ma che vista la complessità risolverebbe solo in parte la
problematica, com’è stato per i solfiti, di cui ritengo debba essere aggiunto
in etichetta la quantità presente (utopia?). Per i vini prodotti e/o
imbottigliati dall’1 luglio 2012, inoltre, scatta l’indicazione
in etichetta degli allergeni (derivati di latte e/o uova) contenuti nei
coadiuvanti enologici utilizzati durante la fermentazione e l’affinamento dei
vini allo scopo evitare torbidità e fenomeni ossidativi.
Simboli da mettere in etichetta (OIV) |
vero nodo cruciale, sempre secondo l’autore, sono i solfiti, fondamentali nel
processo fermentativo, presenti anche naturalmente perché generati dalla
normale attività fermentativa dei lieviti, che sono, come precisa Cinzia Le Donne, nutrizionista
dell’Istituto Nazionale per la Ricerca sugli Alimenti e la Nutrizione, “responsabili di possibili reazioni pseudo-allergiche,
in particolar modo nei soggetti asmatici, particolarmente sensibili, che
possono manifestare crisi respiratorie mentre nelle persone non asmatiche i
sintomi possono essere soprattutto cutanei e gastrointestinali”. In effetti, se
la quantità supera i 10 mg/l sulla bottiglia, deve essere indicato “Contiene
solfiti” (dir. 2003/89/CE, recepita in Italia con
d.lgs. 114/2006) e, anche per un vino prodotto in maniera naturale
(senza aggiunte), spesso tale limite è raggiunto e anche l’indicazione “senza
solfiti aggiunti” potrebbe non essere risolutiva perché difficilmente
dimostrabile. In sintesi, come sostenuto dal sottoscritto, anche la
nutrizionista dell’INRAN pone l’accento sulla necessità di indicare in
etichetta il residuo contenuto in bottiglia, in modo da comprendere se ci sono
pochi grammi o decine di volte tanto, anche perché c’è da tener conto della
Dga, la cosiddetta “dose giornaliera ammissibile”, che non va superata anche
alla luce della presenza dei solfiti in altre bevande e cibi (aceto, frutta
secca). Purtroppo, anche la normativa sul vino biologico non ha posto un freno
a tale pratica, lasciando, di fatto, dei limiti ancora molto alti, come avete
avuto modo di leggere nei miei precedenti articoli e che invito eventualmente a
rileggere per completezza d’informazione.
Altro
aspetto, come già anticipato, è quello degli allergeni da indicare in etichetta
dall’1 luglio (in quantità superiore a 0,25mg/l)
in seguito ad attività di chiarifica del vino, che per alcuni esperti
rappresenta un discorso di lana caprina, vista l’eventuale presenza in tracce
dopo i normali cicli di filtrazione, mentre il problema potrebbe sussistere,
eventualmente, per quelli non filtrati (Svizzera e Canada sono di quest’avviso).
Sulla
base della documentazione scientifica e delle ricerche disponibili, però, non
si è potuto escludere con certezza la presenza nel vino di residui di albumine
e caseine, anche dopo i normali processi di filtrazione cui il vino è
sottoposto, tali da provocare reazioni avverse, pur deboli, in soggetti
allergici a latte e
uova. La norma, contenuta nel regolamento UE n.
1266/2010 (direttiva 2007/68/CE), prevede, quindi, l’indicazione della presenza
di derivati del latte o delle uova utilizzati nel processo tecnologico del tipo
“contiene uovo o derivati dell’uovo”, “contiene lisozima da uovo” o ancora
“contiene derivati del latte o proteine del latte”. Molti produttori, per
evitare allarmismi, preferiranno usare altre sostanze chiarificanti (consentite) di origine minerale o gelatine a base di colla di pesce, per le
quali non è previsto alcun obbligo di indicazione.
Additivi nel bicchiere (da l’Espresso: “Puro come il vino”) |
discorsi a parte, infine, meriterebbero le contaminazioni esterne dovute a
residui di antiparassitari o ad aflatossine prodotte dal metabolismo delle
muffe di cui mi limiterò a un semplice accenno, riservandomi, se possibile, una
trattazione più organica e comprensibile in altri articoli. Per quanto riguarda
il discorso antiparassitario, con l’applicazione delle tecniche di lotta
integrata, basata sull’alternanza e la complementarietà di metodi chimici,
fisici e biologici, oltre alla “selezione di specie più resistenti, conversione
delle macchine irroratrici e tecniche di viticoltura di precisione (attraverso
modelli matematici) si ha la possibilità di ridurre l’uso dei fitofarmaci solo
quando indispensabili”, come sostenuto dal Prof. Stefano Poni, Ordinario di
Viticoltura all’Università del Sacro Cuore di Piacenza.
Per
quanto riguarda le micotossine, invece, il problema è di carattere generale giacché
riguarda molte derrate alimentari (caffè, birra, insilati di cereali come mais
e grano) e il vino non si sottrae da tale logica, anche se il relativo
contenuto è notevolmente inferiore (fino a 150 volte) rispetto agli altri alimenti. L’OcratossinaA (OTA), prodotta principalmente da muffe appartenenti ai generi Aspergillus e Penicillium, cui si aggiunge la nuova categoria delle
fumonisine (FBs), può derivare da attacchi massici di oidio o di botrite alla
vite. Essendo, quindi, strettamente legata alla sanità delle uve, il rischio si
riduce perché da uve pessime difficilmente si può ottenere un buon vino. Nel
settore enologico c’è molta attenzione sulla questione e in diverso modo si sta
operando per un controllo efficace, sia in campo agronomico sia enologico.
Per
terminare, alla luce di quanto sopra, com’è possibile individuare un vino di
bassa qualità? Innanzitutto “il consumatore può affidarsi ai marchi certificati
come le DOP, sulle quali i controlli sono severi lungo tutta la filiera, perché
nessun produttore oggi può permettersi il danno derivante da frodi, truffe,
intossicazioni”, spiega ancora il Prof. Mario Fregoni, finendo che per il
prezzo “è meglio diffidare di quelli troppo bassi trattandosi, di fatto, di
vini ottenuti da vinacce comprate chissà dove e poi trattate anche con
procedimenti illegali come l’aggiunta di zucchero”. Tutto giusto, per carità,
ma personalmente non andrei alla cieca e non trascurerei le visite alle cantine
e delle belle chiacchierate con i produttori, meglio se piccoli e vignaioli, perché
prodotti di qualità ci sono anche a prezzi contenuti e viceversa. Bere
consapevole fa buon sangue, purché con moderazione. Prosit.
Sebastiano
Di Maria
molisewineblog@gmail.com
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