Come ho già anticipato nei giorni scorsi, il giorno di San Martino, che cade l’11 del mese di novembre, rappresenta, per il mondo agricolo, un giorno importante, oggi conosciuto ai più per il detto “ogni mosto diventa vino”, rievocato nelle cantine di tutt’Italia aderenti al progetto Movimento Turismo del Vino (MTV) nella giornata di ieri, ma, come forse molti non sanno, rappresentava, in passato, un vero e proprio spartiacque, che coincideva con il termine dell’annata agraria e con la stipula, tra proprietari terrieri e contadini, dei nuovi contratti di mezzadria per l’anno successivo. Anche in Molise, presso le cantine di Angelo D’Uva, è stata festeggiata questa ricorrenza attraverso la rivisitazione di quelli che erano i momenti di lavoro, fatti anche di canti, balli e gioia, che accompagnavano una delle pratiche più radicate nella storia del mondo contadino, la vendemmia e la relativa pigiatura dell’uva, e poi il successivo assaggio del vino novello. Quest’anno la giornata è stata animata dagli studenti dell’Istituto Tecnico “San Pardo” Agrario e per Geometri di Larino, rappresentato dalle Prof.sse Annarita De Notariis e Giovanna Civitella, l’anima del gruppo, attraverso la riproposizione di canti, balli e musiche, nonché della pratica della pigiatura dell’uva con i piedi, una sensazione atavica, il contatto primordiale uomo-natura. Alla narrazione che ha anticipato le singole fasi, preparata dal sottoscritto per l’occasione, faranno seguito video e immagini dell’intera giornata. Buona lettura e buona visione. Prosit!

Angelo D’Uva e Donato Di Tommaso, enologo aziendale

PARTE I: LA VENDEMMIA
La vendemmia fa parte della nostra storia, delle nostre tradizioni più care. La vendemmia era gioia, era momento magico, una tradizione con un forte valore antropologico e culturale. Giornate di duro lavoro, quelle durante il caldo umido di settembre, con le mani appiccicose di mosto per via dello zucchero presente, l’anima dell’uva, mentre la fatica era alleviata dalla festa del momento, fatta di canti, stornelli e risate. Poco o nulla sanno le nuove generazioni della vendemmia d’un tempo, dove si poteva cogliere lo spirito di una comunità legata alla campagna, al lavoro della terra e della vite, una ritualità che favoriva la socialità tra famiglie attraverso il duro lavoro, a godere della compagnia e degli amici. Ormai è soltanto un ricordo il rito vendemmiale, antico, antichissimo, che affonda le sue radici in un qualcosa che non c’è più, in un passato caratterizzato da un vero e proprio cerimoniale fatto di uomini e donne, di gesti e rituali. Oggi non c’è più nulla di questo, ridotta ormai, attraverso la meccanizzazione, con ritmi serrati o con squadre di operai, come una vera e propria catena di montaggio. Preludio alla raccolta dei grappoli maturi, fervevano i lavori di pulizia dei tini e delle botti nelle cantine; il colpo del mazzuolo sulle doghe o sui cerchi per rimettere in sesto quei recipienti che avevano subito i danni del tempo, la bagnatura o l’abbonimento con acqua per la reidratazione. Nella raccolta ci si faceva aiutare dai vicini e tra i filari, gli uomini, lavoravano con l’aiuto di birocci trainati da coppie di buoi bianchi, carichi di bigonci d’uva. Le donne, invece,  in cucina preparavano ricche colazioni e pranzi per rifocillare i mariti e, in cantina, spesso avevano il compito di pigiare l’uva con i piedi. I bambini erano liberi di correre, giocare e divertirsi tra i filari.

PARTE II: LA PIGIATURA DELL’UVA CON I PIEDI
E’ la prima operazione in una cantina, è quel processo attraverso il quale si estrae dall’uva il mosto da fermentare. Sottovalutata, in molte occasioni, nel passato, ma a volte anche nel presente. Eppure riguarda la materia prima, pertanto condiziona notevolmente la qualità del mosto e del futuro vino. Oggi, esistono macchine moderne che effettuano razionali operazioni di diraspatura-pigiatura, una sorta di sgranellatrici che distaccano gli acini dal raspo. Quali sono le caratteristiche ottimali per una razionale ed efficace pigiatura? E’ prioritario, innanzitutto,  il rispetto dell’uva, gli acini vanno schiacciati, la buccia e soprattutto i vinaccioli debbono restare possibilmente integri. I raspi debbono uscire asciutti, ma soprattutto interi, è fondamentale che non finiscano a pezzettini nel mosto. Tecnicamente, la pigiatura con i piedi rimane insuperata per la leggerezza e sofficità dello schiacciamento, con cui si evitano gli eccessivi spappolamenti delle bucce e la rottura degli acini acerbi. Lo schiacciamento con i piedi è, quindi, ancora oggi, per certi aspetti, un metodo di pigiatura preferibile, soprattutto per chi vuole preservare le caratteristiche originarie dell’uva. Ci sono alcuni produttori che ricorrono a questo sistema di estrazione del mosto. Il mosto appena uscito dagli acini deve essere subito allontanato dalla massa d’uva soggetta alla pigiatura, che tenderebbe altrimenti a scivolare sotto i piedi, perciò l’ammostamento va fatto in un recipiente che permetta tale separazione immediata, a questo scopo furono costruiti i “palmenti“, vasche di pietra o di cemento con il fondo inclinato. E’ opportuno, inoltre, che il mosto sia subito immesso nei tini o nelle vasche di fermentazione in modo che questa abbia presto inizio, poiché la permanenza all’aria ne causerebbe l’ossidazione con effetti dannosi alla qualità del vino.

PARTE III: IL VINO E SAN MARTINO
Per San Martino ogni mosto diventa vino”. Il nesso con il Santo, in realtà, era casuale: l’11 novembre, festa appunto di San Martino, era considerata in passato particolarmente importante, quasi una sorta di capodanno, perché quel giorno si facevano iniziare attività pubbliche e private di rilievo come quella dei tribunali, delle scuole, il pagamento dei fitti e delle locazioni. Quale occasione migliore per testare le qualità organolettiche del nuovo vino? La ricorrenza del Santo era anche l’occasione per l’assaggio, con il vino, dei prodotti di stagione. Il vino costituiva la bevanda fondamentale a tavola, solo complemento di piacere al misero piatto dei poveri, motivo di arricchimento e di discussione, invece, nella mensa dei ricchi. Il vino si prestava a diversi usi: bevuto caldo, nelle sere fredde, come rimedio al raffreddamento, nell’impasto di alcuni dolci o rustici, nella stufatura della selvaggina, oppure sotto forma di mosto cotto, ottenuto dalla condensazione a bagnomaria del mosto d’uva. Lo scattone, piatto tipico della civiltà contadina e pastorale molisana, legata al mondo della transumanza, ha nel vino uno degli ingredienti fondamentali. Era tradizione, inoltre, produrre durante la vendemmia l’acquata, un vinello leggero che derivava dall’acqua passata attraverso le vinacce. I contadini ne offrivano un bottiglione come prelibatezza ad amici e parenti ma doveva essere consumato subito, entro tre giorni, come si raccomandava, perché altrimenti non si sarebbe conservato. In Molise era usanza del vino “alla frasca”, in cui un produttore, con autorizzazione del Sindaco, visibile grazie ad un ramoscello appeso davanti alla sua bottega, poteva allestire un piccolo banco e distribuire vino a forestieri sfuso o in brocche. Le “infrascate”, invece, erano dei veri e propri capanni coperti da canne o fronde, all’interno delle quali, oltre al vino, erano in vendita cibi cotti o crudi. Il vino bevuto in compagnia, oltre a riscaldare e ristorare, metteva addosso allegria, voglia di cantare e di ballare.





Sebastiano Di Maria