Le produzioni italiane certificate, che siano DOP, IGP o STG, stanno registrando un trend di crescita positivo, oltre il 20% su base annua, mai manifestato in passato a cui fa seguito, con i relativi distinguo, un incremento positivo dei volumi e dei fatturati. Quest’analisi non è frutto di una semplice constatazione del fermento che pervade tutto il territorio nazionale, dalla carta stampata specializzata e non per finire alla rete con il suo pullulare di siti e blog a tema, ma piuttosto da un’analisi attenta e accurata che l’ISMEA, l’Istituto che si occupa dell’analisi del mercato agricolo, redige ogni fine anno sulle produzioni agroalimentari italiane.
Secondo tale rapporto, il nostro paese è il leader mondiale del comparto per numero di produzioni certificate con 239 prodotti iscritti nel registro Ue, di cui 149 DOP, 88 IGP e 2 STG (dati al 31.12.2011). Le aziende certificate sono circa 85 mila, con un volume di prodotto pari a 1,3 milioni di tonnellate e un fatturato di 6 miliardi di euro.
Fonte: Rapporto ISMEA 2011 sulle produzioni agroalimentari italiane DOP, IGP e STG |
Analizzando i valori di mercato del comparto Dop e Igp, si parte da una produzione che sul mercato si traduce in un giro d’affari di 6 miliardi di euro che diventano circa 10 al consumo. E’ innegabile che si tratti di numeri significativi, anche se, a dispetto dei tanti nuovi riconoscimenti, il dato che fa riflettere è la forte concentrazione su poche denominazioni, con una percentuale di peso sul totale che sfiora l’83%.
Se si fa un confronto per tipologia merceologica, invece, tra il peso in termini di numero di denominazioni e del fatturato all’azienda, si nota in alcuni comparti un’asimmetria tra incidenza delle denominazioni e del valore di mercato: negli ortofrutticoli, infatti, il numero complessivo di denominazioni pesa sul totale per un 40%, mentre il fatturato complessivo ha un’incidenza di circa il 5%; per gli oli extravergini di oliva il numero complessivo di denominazioni incide sul totale per il 17%, ma il fatturato complessivo ha un peso dell’1%. Discorso inverso, invece, per formaggi e prodotti a base di carne.
Fonte: Rapporto ISMEA 2011 sulle produzioni agroalimentari italiane DOP, IGP e STG |
Mauro Rosati, segretario generale della Fondazione Qualività, sostiene che “il quadro complessivo della qualità italiana porta un po’ di ottimismo in quanto, i dati produttivi e le 20 nuove denominazioni italiane registrate nel 2011, che coinvolgono oltre 7000 potenziali nuove aziende nella certificazione di prodotto, sono un segnale di vitalità per l’agricoltura ma in generale per tutta l’economia”. Questo significa che le imprese guardano alla qualità come unica ancora di salvezza per far fronte alla globalizzazione e alla crescente richiesta di qualità da parte del consumatore. Inoltre, sempre secondo Rosati, “occorre innovare e stravolgere certi paradigmi come “il piccolo è bello” e “l’originalità improvvisata” e puntare sull’organizzazione aziendale, gli standard di certificazione ed il marketing”.
Su questo aspetto è intervenuto anche il Prof. Alberto Mattiacci dell’Università La Sapienza, responsabile scientifico del rapporto, che invita a “non lanciarsi in affermazioni trionfalistiche, in quanto il comparto deve parte rilevante della propria crescita al solo allargamento della base produttiva certificata e non a significativi incrementi di performance delle varie denominazioni, eccezion fatta per uno sparutissimo numero di esse”, come l’aceto balsamico di Modena, entrato di prepotenza nella top-ten per fatturato all’origine solo nel 2010, con un peso del 4% sul totale dopo che nel 2009 la sua incidenza non arrivava nemmeno all’1%. Inoltre, sempre secondo Mattiacci, “ancora troppo timido appare il miglioramento delle capacità di mercato dei protagonisti del comparto: politiche di marca a sostegno dei prezzi, competenze e capacità di relazione coi partner commerciali, per citarne solo due, sono ancora vette irraggiungibili per molte (troppe) delle denominazioni italiane”, ponendo l’accento sulla necessità, alla luce del rischio e delle opportunità che lo scenario economico presenta, di porli come obiettivi prioritari nell’agenda politica e aziendale. Insomma, si tratta di un mercato in continua evoluzione e i marchi DOP e IGP devono fare da volano anche ai relativi territori di riferimento. Purtroppo, il dato che emerge da questo studio è che la comunicazione e il marketing non vengono percepiti come risorse strategiche ed, inoltre, nella descrizione che i produttori danno del proprio prodotto ci si indirizza sulla tradizione e sulla provenienza geografica, ossia su una qualità certificata intrinseca, allontanandosi da un brand forte e generando lotte intestine all’interno della stessa denominazione. Ci sono molti consorzi, infatti, che dichiarano di non provvedere alla gestione di questa attività né attraverso un ufficio interno né affidandola a consulenti.
Su questo aspetto è intervenuto anche il Prof. Alberto Mattiacci dell’Università La Sapienza, responsabile scientifico del rapporto, che invita a “non lanciarsi in affermazioni trionfalistiche, in quanto il comparto deve parte rilevante della propria crescita al solo allargamento della base produttiva certificata e non a significativi incrementi di performance delle varie denominazioni, eccezion fatta per uno sparutissimo numero di esse”, come l’aceto balsamico di Modena, entrato di prepotenza nella top-ten per fatturato all’origine solo nel 2010, con un peso del 4% sul totale dopo che nel 2009 la sua incidenza non arrivava nemmeno all’1%. Inoltre, sempre secondo Mattiacci, “ancora troppo timido appare il miglioramento delle capacità di mercato dei protagonisti del comparto: politiche di marca a sostegno dei prezzi, competenze e capacità di relazione coi partner commerciali, per citarne solo due, sono ancora vette irraggiungibili per molte (troppe) delle denominazioni italiane”, ponendo l’accento sulla necessità, alla luce del rischio e delle opportunità che lo scenario economico presenta, di porli come obiettivi prioritari nell’agenda politica e aziendale. Insomma, si tratta di un mercato in continua evoluzione e i marchi DOP e IGP devono fare da volano anche ai relativi territori di riferimento. Purtroppo, il dato che emerge da questo studio è che la comunicazione e il marketing non vengono percepiti come risorse strategiche ed, inoltre, nella descrizione che i produttori danno del proprio prodotto ci si indirizza sulla tradizione e sulla provenienza geografica, ossia su una qualità certificata intrinseca, allontanandosi da un brand forte e generando lotte intestine all’interno della stessa denominazione. Ci sono molti consorzi, infatti, che dichiarano di non provvedere alla gestione di questa attività né attraverso un ufficio interno né affidandola a consulenti.
In definitiva, occorre superare queste barriere e congetture cercando di adoperarsi con strategie comuni e condivisibili, fondate su un’agricoltura dinamica, ecosostenibile e territoriale, per non perdere quote di mercato extra-UE con burocrazie farraginose e relativo sperpero di denaro, potendo già contare, a tal proposito, sulle risorse necessarie.
Sebastiano Di Maria
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