“Da dove potremmo dunque iniziare meglio se non dalla vite, la cui supremazia è tanto incontestata in Italia, che si può avere l’impressione che essa abbia superato, con questa sola risorsa, i beni di tutte le popolazioni, persino di quelle che producono essenze, dal momento che in nessun luogo esiste fragranza maggiore del profumo delle viti in fiore?”
Con queste parole Plinio Il Vecchio introduce, nel libro XIV della Naturalis Historia, il capitolo sulla vite, la pianta che egli considerava “italiana” per eccellenza.
In effetti, la coltivazione della vite era già ampiamente diffusa nella nostra penisola già quando i greci si affacciarono per la prima volta sulle nostre coste e constatarono l’esistenza di questa liana che univa simbolicamente i vari territori, dalla Sicilia fino alle Alpi, e con loro i relativi popoli. Non a caso, sembra che proprio i greci attibuirono il nome di Enotria alla nostra terra, dal vocabolo greco “oinos”, cioè territorio ricco di vigneti. Durante il Cristianesimo, complice la sua diffusione, la vite arrivò dapprima in Francia e poi in tutto il mondo.
Sempre Plinio Il Vecchio, nella Naturalis Historia, parla di “vinum trebulanum” il cui nome, secondo il Prof. Franco Cercone, esperto di storia e antropologia dell’alimentazione, è dato dall’aggettivo trebulanus, derivante dal sostantivo trebula, con il significato di casale o fattoria. Il Prof. Mariano Corino, curatore della traduzione dell’opera De Naturali Vinorum Historia de Vinis Italiae (1595) di Andrea Bacci, fa spesso riferimento al vino Trebulano proveniente da Trebula, oggi Treglia, in Campania presso la città di Capua. Il Prof. Attilio Scienza, invece, ritiene che il termine Trebbiano derivi da “Drijbo”, parola franca, che significa germoglio di grande vigore, che venne attribuita ai giovani rampolli di famiglie nobili a cui era affidato il compito di ridare forza alle campagne dopo le scorribande longobarde. Si ritiene, quindi, a diverso titolo, che la presenza del vitigno Trebbiano nell’Italia centrale risalga già all’epoca romana, anche se non esistono certezze storiche in tal proposito.
Se c’è un vitigno a bacca bianca, infatti, che più di altri può essere rappresentativo della nostra penisola, questo è il Trebbiano nelle sue varie tipologie. Il termine Trebbiano indica la più grande e diversificata famiglia di viti fra quelle conosciute, anche se non vi sono rapporti di parentela da un punto di vista genetico.
Le sue caratteristiche positive di adattamento alle diverse zone climatiche e territoriali gli hanno consentito una forte diffusione su buona parte del nostro territorio. Trattandosi di un vitigno molto plastico, peraltro particolarmente generoso nella produzione e, quindi, di facile commercializzazione, non è così difficile ed impegnativo da coltivare (da qui l’ampia diffusione) e risente molto della mano dell’uomo in cantina. Da qui la possibilità di trovare, anche a pochi chilometri di distanza, espressioni molto diverse nell’impostazione. In effetti, il Trebbiano viene considerato un’uva neutra, cioè priva di aromi varietali o di relativi precursori, e pertanto, all’interno di uno spazio sensoriale, è possibile individuare una posizione che ben ne definisce il carattere, ossia di un vino in cui non è possibile riconoscere peculiarità aromatiche e pertanto, essendo dotato esclusivamente di aromi di fermentazione, può essere collocato nella parte centrale.
Fonte: La vite e il vino – Bayer CropScience (2007) |
Per quanto riguarda le diverse tipologie troviamo la Turbiana sulle sponde del lago di Garda dove origina il Lugana, e tra le colline di Soave (Trebbiano di Lugana) dove però è stato in parte estirpato per lasciare spazio alla generosa e rustica Garganega. Lungo la pianura emiliana troviamo il Trebbiano Modenese per passare poi a quello Romagnolo, localmente detto “Trebbiano della fiamma”, perché quando l’uva è matura assume, diversamente dalle altre, una particolare coloritura giallo-dorata carica. Più a sud troviamo il Trebbiano d’Abruzzo, risalente al XIV secolo e rivelato più tardi anche nella monografia di Raffaele Sersante del 1856, che ricorda come questa varietà fosse largamente diffusa e nota, non solo nel mondo rurale, con la designazione di uva passa. Abbiamo poi quello Spoletino e quello Toscano, probabilmente il più diffuso in ambito nazionale, mentre in Sicilia abbiamo il Trebbiano Veruzza prodotto a Monreale nei pressi di Palermo.
Le denominazioni di origine che lo vedono protagonista, quindi, attraversano mezza Italia, e quando non ha una DOC dedicata contribuisce comunque a decine di altri disciplinari. Essendo un vitigno neutro e, quindi, una sorta di “prezzemolino” in molti disciplinari, ha fatto propendere qualche guru dell’enologia a considerarlo inutile nel panorama ampelografico italiano e di cui farebbe volentieri a meno. Probabilmente, come già anticipato, tale convinzione nasce dall’incapacità di questo vitigno di avere una propria personalità o la mancanza di un filo conduttore comune anche nello stesso terroir. Tale concetto è avvalorato anche dai disciplinari di produzione che, in generale, riservano una quota di almeno il 15% ad altre varietà a bacca bianca, spesso aromatiche, aggiungo io, che vanno a determinare le peculiarità gusto-olfattive del relativo vino. Se a questo aggiungiamo anche la sua generosità, ecco che ben gli si cuce addosso l’abito di uva da taglio o di maratoneta eno-olimpionico.
Dopo averlo martirizzato, in egual misura mi sento di difendere l’operato di chi ne ha fatto un cavallo di battaglia, sia dal punto di vista squisitamente viticolo, perché chi fa questo mestiere deve pure poter campare del proprio lavoro e dei propri sacrifici che vanno ben oltre un estere, un alcool superiore o un’aldeide, che tanto appassionano e fanno discutere i salotti buoni, che difficilmente si sporcano le mani con la terra, ma anche chi, con ottimo successo di critica, è riuscito a tirarvi fuori un carattere e una longevità, anche grazie a terroir particolari, inimmaginabili per tali vini. Perché non andiamo a dire a questi produttori che hanno sbagliato tutto nella vita?
Sebastiano Di Maria
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