La disciplina utilizzata nello studio della vite con l’obiettivo di individuare, denominare e classificare le innumerovoli varietà, attraverso analisi delle caratteristiche peculiari della pianta, della sua morfologia e delle diverse fasi del suo sviluppo (foglie, apici dei germogli e grappoli) è nota come ampelografia (dal greco àmpelos – vite, tralcio). Una vera e propria rivoluzione nello studio della genealogia della vite si è avuta, invece, con l’analisi del DNA attraverso l’utilizzo dell PCR (Polymerase Chain Reaction), scoperta nel 1995. Tale metodica consente di amplificare, ossia riprodurre in maniera specifica ed esponenziale, una piccola regione del DNA.
Una delle sue innumerevoli applicazioni, quella con Marcatori di Microsatelli, ha consentito di creare un’enorme banca dati di oltre 3.000 varietà, in cui, attraverso il confronto dei rispettivi profili, è possibile riconoscere i singoli vitigni e anche i loro cloni. In questo modo si è potuto risalire alle origini della viticoltura, scoprendone i progenitori e i vari legami di “parentela”. Nel caso del Sangiovese, ad esempio, si è scoperto che uno dei progenitori è il Calabrese di Montenuovo, varietà praticamente scomparsa dal patrimonio ampelografico nazionale. Potete immaginare lo stupore e lo stato di diffidenza generale nell’ammetere che, uno dei vitigni principe dell’enologia Italiana, che ha trovato in Toscana il suo territorio di elezione, fosse in realtà di origine calabrese o campana. Questa metodica è la stessa che ha permesso di distinguere la Tintilia dal Bovale Grande, cui era sinonimo nell’Albo Nazionale dei Vitigni, dandone un’identità territoriale nel Molise.
Sebastiano Di Maria
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