Se c’è una parte dell’agroalimentare italiano che sorride, con un record dell’export mai registrato in precedenza, come quello enologico, dall’altra parte c’è un vero e proprio allarme, mi riferisco a quello oleario, altro simbolo del made in Italy, vittima di un’invasione massiccia di olio estero. In effetti, secondo stime della Coldiretti, la quantità in Italia di olio di oliva (non extravergine?) estero ha raggiunto il massimo storico di 584mila tonnellate e ha superato la produzione nazionale, in calo nel 2011 a 483mila tonnellate. Il risultato di questo sorpasso è che, allo stato attuale, la maggioranza delle bottiglie di olio presenti sugli scaffali provengono da olive straniere senza che questo sia sempre chiaro ai consumatori. Secondo questi dati l’Italia risulta il primo importatore mondiale di olio che per il 74% viene dalla Spagna, il 15% dalla Grecia e il 7% dalla Tunisia. Gli oli di oliva importati in Italia vengono, di fatto, mescolati con quelli nazionali per acquisire, con le immagini in etichetta e sotto la copertura di marchi storici, magari ceduti all’estero, una parvenza di italianità da sfruttare sui mercati nazionali ed esteri. Tale tendenza è confermata, infatti, secondo un’analisi di Coldiretti/Eurispes, dal fatto che il 19,1% dell’olio extracomunitario importato in Italia nel 2010 è stato destinato alla provincia di Lucca, mentre il 10,1% alla provincia di Genova dove si trovano importanti stabilimenti.
Secondo Massimo Gargano, presidente di Unaprol (consorzio olivicolo italiano), l’olio Delizia Carapelli da 750 ml, venduto a 0,99 centesimi presso Despar, è un “banale e volgarissimo lubrificante”. Con l’iniziativa “Per il futuro dell’olio italiano”, promossa in sinergia con la Fondazione Symbola e Coldiretti, le tre organizzazioni hanno presentato una proposta di legge dal titolo “Norme sulla qualità e la trasparenza della filiera degli oli di oliva vergini”. Tante le questioni affrontate nella legge, dalla lotta alle frodi alla leggibilità dell’etichetta dove informazioni importanti come l’origine “sono relegate in un angolino, al tema dei livelli degli alchil-esteri”, ha proseguito Gargano, fino al confronto tra “una bottiglia venduta a 0,99 centesimi in grado di generare reddito e i costi di produzioni di olio in Puglia, per esempio, che ammontano a 3,59 euro al litro”.
Ma cerchiamo di capire quali sono le novità essenziali che si vogliono apportare con questa proposta di legge, a tutela delle nostre denominazioni. Il primo aspetto riguarda l’etichetta, che deve essere chiara e contenere le informazioni necessarie per una valutazione oggettiva da parte del consumatore. In particolar modo, deve essere chiara l’origine dell’olio oltre alla possibilità di definire anche eventuali miscele con oli provenienti da altri stati. Per tale motivo dovrà essere dato valore probatorio al panel-test, per le valutazioni organolettiche, in modo da smascherare gli oli difettosi in commercio, attraverso la costituzione di un apposito elenco nazionale e un irrigidimento del relativo codice deontologico.
Altro aspetto da non trascurare, sempre secondo questa proposta di legge, sono i marchi d’impresa, spesso fuorvianti sulla provenienza geografica della materia prima, che dovrà essere indicata in maniera inequivocabile. Inoltre, per favorire la trasparenza verso il consumatore, dovranno essere disponibili a tutti le informazioni sull’origine degli oli che entrano in Italia, da parte degli uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera, facendo cadere il “segreto” delle importazioni agroalimentari.
Per quanto riguarda la qualità, inoltre, potrebbe essere necessaria la determinazione di metil-esteri ed etil-esteri, che dovranno essere rese disponibili a tutti. La presenza è legata all’azione di enzimi nell’ambito del normale processo di lavorazione delle olive e, pertanto, la loro presenza è indice di fermentazioni e di un cattivo stato di conservazione delle stesse. In realtà la Comunità Europea, che dovrebbe vigilare sulla genuinità degli oli, si è messa di traverso con un regolamento, in vigore dal 1° aprile, che di fatto alza l’asticella sulla quantità di questi composti (da 75 a 150 mg/Kg) e consente, indirettamente, la vendita di oli sottoposti a deodorazione (eliminazione dei difetti e possibilità di messa in commercio anche come extravergine, purchè miscelato con vero extravergine fruttato). I dati riportati in questo articolo, poi, sono emblematici e si commentano da soli.
Ma intanto su quali aspetti, oltre a quelli legislativi, il nostro paese deve far leva per il rilancio di uno dei simboli del Made in Italy? Innanzitutto dalla consapevolezza, a mio avviso, da parte di tutti, sulla necessità di non perdere quello che rappresenta un patrimonio culturale, territoriale, di biodiversità varietale e paesaggistica del nostro paese, oltre che salutistico, aspetto da non trascurare e di primaria importanza. In primo luogo attraverso normative che tutelino, attraverso la trasparenza, sia il consumatore, soprattutto per quanto riguarda le sofisticazioni e la concorrenza sleale, e che non penalizzino oltremodo i produttori, in particolar modo quelli che puntano sulla qualità e sul legame territoriale. Secondo Ermete Realacci, presidente di Symbola, infatti, “bisogna soprattutto rafforzare il legame con i territori e con le relative eccellenze che custodiscono, puntando sulla qualità, come intrapreso da anni dal settore con successo dal settore vitivinicolo”. In realtà, rispetto al mondo enoico, ci sono diversi aspetti da considerare, in particolar modo sull’esigua quantità di dati scientifici a disposizione, figli di un’attività di ricerca pressochè inesistente se confrontata a quella viti-enologica. Ma l’aspetto più preoccupante, soprattutto per chi vive quotidianamente questa realtà, è la carenza di manodopera per la raccolta e la potatura, oggi sopperita in parte dalla dedizione in ambito familiare che va man mano scomparendo, frutto di una tradizione tramandata di generazione in generazione, e mi riferisco alle piccole realtà produttive che rappresentano la parte preponderande del tessuto olivicolo nazionale, ma anche da manodopera da parte di immigrati che tamponano, almeno parzialmente, tale necessità. La ricerca, da questo punto di vista, spinge per un’intensificazione delle produzioni con sistemi di allevamento che consentano una meccanizzazione elevata, un po’ come accade per i nostri competitor esteri, in modo da abbattere i costi in maniera concreta. D’altro canto, però, l’elevata biodiversità in ambito di cultivar, spesso fortemente legate ad un territorio anche dal punto di vista storico-culturale, oltre che la loro presenza in aree altrimenti marginali, mal si conciliano con una visione tecnicistica della coltivazione.
Scorcio di olivicoltura a Larino |
Ed ecco quindi riproporsi lo stesso dualismo che esiste anche in ambito vitivinicolo, tra viticoltura di territorio ed eroica (aree marginali) rispetto a quella meccanizzata e di precisione. Inutile giraci intorno, è necessaria la presenza di entrambe le realtà produttive: da una parte “l’olivicoltura di territorio”, fatta di storia e cultura, di cui bisogna preservarne le puculiarità attraverso un’attenta e accurata opera di marketing territoriale e di valorizzazione delle produzioni, attraverso denominazioni, associazioni d’impresa e di prodotti a marchio o quant’altro possa evitare l’abbandono dell’attività agricola (i dati purtroppo dicono questo), mentre dall’altra parte una “olivicoltura industriale” e trasparente che possa far fronte, in prima battuta, alla concorrenza aggressiva di altri paesi produttori, potendo contare su costi di produzione bassi e su posizionamenti di mercato, dato i volumi, a tutto vantaggio anche per le produzioni minori, oltre che a soddisfare il consumatore meno esigente.
Sebastiano Di Maria
molisewineblog@gmail.com
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