In un momento storico in cui siamo primi produttori ed esportatori al mondo di vino, l’Italia, o meglio, gli italiani, fanno registrare, con un declino progressivo che ci porta ai minimi storici dall’unità d’Italia, un calo nel consumo del nettare di Bacco senza precedenti, ad appannaggio di altre bevande alcoliche. Quali sono i motivi di questa sempre minore attrazione verso il simbolo dell’agroalimentare italiano nel mondo? Nei giorni scorsi, la popolare rivista americana Newsweek, con un articolo dal titolo significativo “Vino? No tank. We’re italian”, ha cercato di individuare quali sono le cause alla base di questa profonda flessione nelle abitudini di consumo, loro che sono i primi importatori di vino italiano nel mondo. Secondo gli analisti d’oltre oceano, il calo è imputabile a una serie di fattori, tra cui la crisi economica in cui il vino non è considerato più un bene di prima necessità, i cambiamenti demografici, con un invecchiamento della popolazione che incide direttamente sul consumo di alcolici, oltre un crescente interesse verso alcune tipologie di prodotti, come la birra artigianale, che sembrano raccogliere sempre più consensi nel consumatore. Il nostro paese, infatti, per quanto riguarda il consumo individuale di vino è dietro la Francia, con 51,48 litri l’anno. E’ questo il dato di uno studio del Beverage Information Group, gruppo di ricerca statunitense sul consumo di bevande alcoliche, che è un segno tangibile, secondo gli analisti, del cambiamento di tendenza, registrando un evidente calo del 15% rispetto al 2006, ancora maggiore se rapportato agli anni settanta, quando la media era di 111 litri l’anno, secondo le stime di Assoenologi. Nell’ultimo quinquennio (2007-2012), invece, la flessione è stata del 4,5%.
Fonte: Newsweek |
Secondo Jancis Robinson del Financial Times, questa tendenza è comune a tutti e tre i principali produttori di vino al mondo, Italia, Francia e Spagna, ed è imputabile, secondo la stessa giornalista, a una diversa immagine di chi beve vino diffusa nella società. La Master of Wine Robinson scrive: “Il vino fa parte della tradizione storica di questi paesi: chi beve vino è visto ormai come una persona “vecchio stile”, è associato ai contadini di una volta, a differenza invece delle birre più pubblicizzate, o delle bevande gassate, dei liquori, che hanno un’immagine più giovane e moderna”. Negli Stati Uniti, invece, la tendenza è opposta, ben il 30% in più rispetto a dieci anni fa. Secondo Joe Bastianich, imprenditore di origini italiane nel settore alimentare, “gli Stati Uniti stanno recuperando terreno, mentre l’Italia sta diventando un paese più moderno. In un paese che si basa sempre meno sulla produzione agricola – ogni riferimento alla continua sottrazione di suolo fertile per la cementificazione e attività industriale è puramente voluto – è normale che ci sia meno gente che beve vino. In Italia si sta sviluppando una nuova cultura, per creare birre e cocktail artigianali, mentre negli Stati Uniti si bevono meno cose insignificanti e più vino, perché si sta cercando di vivere con uno stile di vita migliore”. Lo scrittore Anthony Giglio, anch’egli di chiare origini italiane, sostiene che “i giovani italiani vedono il vino come la bevanda dei loro genitori, dei loro nonni. Invece, sono alla ricerca di cose più eccitanti, come le birre artigianali e i cocktail”.
Crisi economica, cambiamenti dei gusti, disoccupazione, bevande di tendenza, d’accordo, ma c’è anche qualcos’altro nel calo del consumo di vino in Italia? Come si può uscire da questo cono d’ombra, cercando di programmare il futuro in modo da non dipendere quasi esclusivamente dall’export, quello che Monica Larner, corrispondente in Italia di The Wine Advocate, definisce, come citato nello stesso articolo, l’unica strada per la sopravvivenza del sistema vino in Italia? Innanzitutto riappropriandosi delle proprie origini, rinsaldando il legame con la terra e con l’agricoltura, rifiutando qualsiasi forma di sviluppo o presunto tale che violenti il nostro bene primario; la crescita dei consensi dell’istruzione agraria, in tutti i suoi livelli, è di buon auspicio per formare la nuova classe di operatori del settore. Il mondo vitivinicolo, già oppresso dalla burocrazia ossessiva, e in particolare l’aspetto che riguarda la comunicazione, e con esso tutto il complesso sistema di gestione che va dal produttore al consumatore finale, rappresenta, per chi scrive, uno dei problemi del nostro sistema. La comunicazione affidata a personaggi di dubbia onestà intellettuale, oltre che di conoscenza neanche scolastica delle problematiche vitivinicole o agricole in generale, di cui è pieno il sistema vino, costringe le aziende a dedicare gran parte delle risorse finanziarie e umane a interagire con la critica enologica, di cui spesso è schiava, e per la pubblicità sulle testate specializzate. Per tale motivo il vino, grazie anche all’alta finanza che ha fagocitato tutte le più importanti realtà produttive, cui interessa una fetta dei sei miliardi di abitanti della terra, non i sessanta milioni interni, si è appiattito sull’eccellenza, diventando sempre più impegnativo. Bere un bicchiere di vino è, soprattutto, impegno psicologico ed economico, spesso anche per ricarichi vergognosi da parte dei ristoratori, cose che lo rendono meno interessante, meno divertente, noioso.
Va riscoperto il divertimento di bere un bicchiere di vino – non a caso vanno bene gli spumanti, ossia vini divertenti per stile e situazioni di consumo – attraverso la riscoperta della quotidianità, dalla possibilità di poter consumare a un giusto rapporto qualità-prezzo durante i pasti, consapevoli delle qualità organolettiche e salutari per il nostro stile di vita mediterraneo, fuggendo quelli che sono i tentativi di disinformazione e aggressione da parte di certa stampa controllata che addita l’alcool, e il vino in particolare, di parte dei problemi di salute pubblica. La riconquista della vera identità e originalità del prodotto, attraverso il suo legame con la terra e con la nostra storia, quella alla base del successo del vino italiano nel mondo, è condizione imprescindibile per ridare linfa al consumo interno, anche attraverso sistemi di comunicazione diretti e a “costo zero” che coinvolgano i consumatori, giovani in particolare, avvicinandoli alle realtà aziendali, fino ad adesso troppo lontane dal quotidiano.
Sebastiano Di Maria
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